martedì 17 giugno 2014

io scrivo

Mano a mano

Pensieri sconnessi/ Conversazione tra l’uno e l’altro.
MauMasc, perché?
Semplicemente è il taglio di nome e cognome, l’abbreviato che usavo al giornale. Suona bene, è sintetico.
Dagli articoli di giornale alle superfici dipinte. Dove sta la continuità?
Scrivere e dipingere sono linguaggi. Nel colore esprimo il mio informale, l’istintività, qualcosa di ancestrale e infantile. Serve a me, ma c’è sempre l’auspicio che possa servire a qualcun altro in termini di emozione, di dialogo. Nello scrivere c’è troppa testa, troppo pensiero. Almeno per me. Il bianco di una pagina da riempire non è la stessa cosa di una superficie di legno da riempire. Dalla tela, dal cartoncino, dallo spazio di una tavola di compensato esce il corpo, la fisicità, esce la Mano.
La Mano è la finestra della mente, dice Kant
Il movimento della mano parte sempre da un movimento del cuore. La mano va da sola, è un motore autonomo dal cervello. Come spiega in maniera lucida Domenico De Rosa, la Mano è un organo irrequieto, nervoso. Assecondarla è uno stato di grazia, di sapienza. Nella scrittura c’è il finito, nella superficie  dipinta il finito, la versione definitiva, non sembra esserci mai. E’ intenzione spontanea, fresca. E’ vita. Tengo gli schizzi di amici pittori e non, sono molto di più della loro carta d’identità. C’è il gesto, la seduzione. Il segno è un assolo che carica un’azione, un’emozione.
Sei un autodidatta, non hai fatto scuole o corsi di pittura.
Da bambino  usavo, come tutti a quei tempi, le matite Giotto;  cinquant’anni dopo ho incontrato l’acrilico, il vinavil, il gesso. E’ stato come ritornare a scrivere con l’Olivetti,  di prima mano, di getto…E’ il bello della diretta.
Tracciare segni, buttare colore: salta all’occhio il fatto che i tuoi quadri non hanno una collocazione di stile ben precisa. Seguono, piuttosto, il tuo umore, il tuo meteo
Dicevo che in un quadro ci metto la mia mano, non so se arrivo a metterci  anche la partecipazione visiva. Vale il gesto, forte o delicato, di quell’istante. Concettualizzare l’astratto, l’informale, il materico , concettualizzare un clichè, un genere di pittura, serve a poco. La Mano va, spatola e pennella colore, l’occhio vede. Usiamo due sguardi diversi, è vero: l’uno si focalizza sul colore, l’altro li trasforma in una sorta di ascolto, di ascolto della memoria. Ma In tutto questo c’è la Mano, l’inquietudine della Mano. Ho scoperto un’intensa relazione con la mia Mano : sa essere incerta e decisa, sensibile e distratta, serena e nervosa, buona e cattiva…E’ il mio pentagramma, credo. Lei pulsa, trasmette, esegue, tocca. Non agisce per puro istinto, ma per l’istinto dislessico che c’è in ognuno di noi. La nostra Mano gestualizza e trama i nostri sogni, le nostre angosce. Dà forma, spessore, persino suono, alle superfici dipinte.
Che stai leggendo MauMasc?
I “Pensieri seduti “di Sebaste. Ha come protagonista la panchina. Sebaste ne fa una raffinatissima declinazione sulla vita. Siamo sempre lì, insomma: (ri)cerchiamo  tutti una sana gestione del caos, perché siamo tutti indistintamente fragili.
Che fare, allora?

 Riprendiamoci per… Mano.


Donna Fuga(ta)

L’ho lasciata senza un abbraccio. Come un fuggiasco. Come chi esce di scena senza via di ritorno. Un volo Wind Catania -Venezia mi riportava in quel nord grigio da cui ero scappato per vivere due emozioni: lei, la Giò, e il mare invernale dell’Ortigia.
L’Airbus che mi ributta dentro la routine di tutti i giorni, affianca l’Etna: è innevato a nord, sbuffa polvere arroventata a sud. Come me è inquieto. Ma vivo, energetico, muscolare. Come me è in subbuglio: la sua pancia si sfoga come la mia.
Mi lascio dietro tutto, senza rimpianti: la solarità di Giò,i bordi in mare con Max e Pucci sul “Mamma mia”, la cucina alle erbe di Santuccia, le serate di caraoki a casa di Ernesto ed Emma.
Me ne andavo dall’ accogliente casa di calle degli Orsi che, con caparbietà, visto la sua iniziale diffidenza, ero riuscito a farmi affittare da donna Carmen, bella signora bruna nota in Ortigia per i suoi salotti musicali a base di Rossini e Mascagni. In quella casa che mi ha protetto e coccolato, sono scappato lasciando ogni cosa. Anche il mio disordinato diario, anche i miei libri, anche i miei disegni.  Anche i miei odori stanno lì. Mi consola lasciar traccia di me, evidentemente.  
Ancora adesso, a 12 mila piedi d’altezza, non so perché ho perso la testa per Giò. So solo che quando il mio sguardo ha incrociato il suo, in un sabato di movida ferragostana nella piazzetta di Favignana,  sono stato attraversato da una scossa. Inutile ora capire di più, devo solo metabolizzare la mia fuga, dimenticare i nostri risvegli pieni di passione e i suoi intriganti sms. Ne tengo in memoria ancora uno: “Voglio tornare a mettere il mondo sotto le scarpe, con te che mi tieni per mano”, dice.
A me sembra l’inizio di una storia, di un’altra storia sospesa.
E’ tutto accaduto, anzi no.



Stato di Grazia

Ho preso la porta con passo breve, deciso e ho infilato l’ascensore. Nei 10 secondi che trascorrono per giungere al piano terra, l’ho cancellata. Spazzata via dai miei pensieri, allontanata dal mio corpo. Lei, al 5 piano di casa sua; io sotto, all’ingresso del condominio. Un ingresso d’uscita, però. Nel gioco del tempo (i 10 secondi, appunto), ero di nuovo io. Mentre mi guardavo nello specchio dell’ascensore,  vedevo il mio volto distendersi, abbandonare la ruga sopracigliare.  Mi passo la mano destra sui capelli (lunghi) e mormoro un nevrotico (o tribale)  ola ola ola.crash crash crash.
Sì, tra noi due avevo messo la giusta distanza.
“Fammi entrare nella tua vita, tu sei il mio rivoluzionario, il mio alien”, mi chiedeva insistentemente da settimane. Ed io niente, rispondevo con i silenzi. Quelli che parlano, quelli che spiegano un disagio, una voglia di scappare.
Sentivo in quella sua ossessiva richiesta  una forma di violenza, di tracotanza. Sia chiaro, a lei volevo bene, mi piaceva anche. Ma tra noi non c’era chimica. Dopo un’ora di attrazione, montava la noia, una reciproca tensione. L’iniziale passione s’era bruciata. Volevo tornare alle mie curiosità, alla mia vita inventata giorno per giorno.
Due ore dopo. Non sono andato dall’amica di turno o al bar per uno spriz. Mi sono chiuso in casa e ho fatto un quadro alla Kandinski, pieno di colore, di vivacità, di materia, di caos. Una volta terminato, ho trattenuto il respiro. Mi sono emozionato. Ho pianto.
Ero di nuovo io. Solo.
“La sola poesia è quella connaturata alla realtà delle cose, alla luce di cui sono intrise, al loro colore”, Emilia Marasca

  

Movimenti Remoti

Ho inseguito il suo colore, le sue superfici dipinte di smalti e incrostate di gesso, stucco e vinavil. Quadrati grandi, aggressivi, violenti, scomposti. Emozionali. Ho visto (sì, visto; non altro )la mia anima uscire per andare incontro a lei.
(Preferisco immaginare, non vedere le cose)
Quei pannelli li avevo incrociati per la prima volta da Igor,  Il tagliabarbaecapelli  - così si qualifica lui -   che, ogni primo giovedì del mese, propone nel suo retrobottega underground  composizioni materiche, video-installazioni, letture di poesia. Varie performance umane, insomma. 
Quella sera di giovedì , dopo il jazz al bocciodromo, me ne vado con luca da igor. L’alcol già vola alto, la musica rook anche. Passa un pezzo dei Rem ( Zephir zong..) La gente è sdraiata, un tantino sconvolta da cannabis e dintorni.
Dei pannelli esposti, una dozzina, nessuno se ne frega più. Io solo me li passo uno per uno. Li tocco, li gratto con i polpastrelli. A mo’ di sopraluogo. Toccandoli percepisco, annullo le tinte, i dettagli.
I miei desideri / quella sera/ sono pochi: lei e i viaggi. Ma lei chi è. I suoi pannelli non portano firma, nessuno sa chi sia quella donna.
Artista anonima, sì. Ma è solo un dettaglio.
Quella sera, tra me e lei, è stato un gran viaggio tra i movimenti remoti.

  

Cose

Ci sono cose, oggetti, anche apparentemente senza valore, che ti stanno a fianco tutta la vita. Non c’è un perché “profondo”, non c’è una ragione precisa, ma è così. Succede a me come a tanti altri. Di queste cose che nella tua vita azzerano la loro forma per diventare icona, metafora, amuleti e quant’altro,  ne parlavo frugalmente alcune sere fa con degli amici del BarBorsa.
“Ho cambiato due mogli, 6 auto, ho fatto 5 traslochi, ma il mattarello con cui da bambino tiravo la pasta da mia nonna Gena sta con me da oltre cinquant’anni. Ora sta in studio, vicino al computer, ma nell’appartamento di via cavour lo tenevo in salotto. Sott’occhio, insomma”, mi confidava Ireneo.

Come Ireneo, anche Gianni e Antonio hanno una loro Cosa fissa. Gianni si tiene in cucina il pluridecennale tubo di latta rosso che in origine conteneva una buona bottiglia di Mumm;  Antonio  confida di aver sul portafogli l’angolo strappato di una pagina di Siddharta.
Nella vita, per ragioni diverse, ho buttato via tante cose. Non sempre per volontà. Con dispiacere il Bacchiglione arrabbiato mi ha portato via – nel novembre 2010 – la credenza della nonna, che ogni primavera, sotto Pasqua, curavo con antitarme e ceralacca. Avrei voluto stesse con me, ma in questo caso il fiume l’ha vinta. Amen.
Faccio due conti. C’è una Cosa che sta con me da 42 anni. Me la guardo tutti i giorni al mattino mentre preparo la moka del caffè. Quella Cosa è il poster del Gingerino Recoaro, che recita: “ Stimola ma non stordisce”. Lo slogan è accompagnato da un primo piano di due belle gambe di ragazza  in minigonna bianca. Lei è anonima, nel senso che non ha volto. Lei c’è, ma chissà chi è. Ciò nonostante, la sento. Mi arriva il suo odore.
(Qualche giorno dopo)
Mi passa casualmente tra le mani una pagina di  Goffredo Parise. Ad un certo punto scrive: “ Non inseguo le immagini, preferisco immaginare”.



Di questo faticoso vivere

Ti prende forte la paura, a volte. Ti si stringe la gola, ti si chiude lo stomaco. La paura fa male, ti sconquassa dentro.
Il resto è saggezza. E’ gioventù.
Passeggio tra i libri, vi trovi il caos e  il tormento del mondo.
Mi metto orizzontale, rincorro il silenzio. Trovo il conforto del pensiero trasparente.



Der Wanderer

Scappo. Cerco altri luoghi. Mi separo dall’unità dei miei affetti.
Partenze a cui si è costretti per indagare nuovi spazi fisici.
Partenze volute per abbracciare altro.
Vado via da qualcosa e da qualcuno cercando di rivolgermi all’anima remota.
In questo continuo scappare, esisti tu.
Cercami più in là, dove  ancora non sono.
Arriverà il momento.

Frequento la memoria. Ed incontro volti, sagome, figure.
Frequento la carne. Intercetto l’arco cromatico degli odori.

Graffio la materia che si scompone. E urla.

io dipingo

 

News
Si chiama
"Cambio di stagione"
l'allestimento proposto da Mau Masc 
dal 18 al 30 settembre nello spazio galleria del
Caffè Paolo Lioy 10, in centro a Vicenza.
Si tratta di 6 opere informali, espressione di una nuova narrazione da parte dell'artista. Alcune di queste opere verranno presentate nel 2016 a Palermo.



 


Mau Masc: un percorso di narrazione tra colore e scrittura
Di Pietro Rossi | Venerdi 11 Settembre alle 16:56 | 0 commenti

Maurizio Mascarin, pittore e giornalista, ma entrambe le etichette gli stanno strette, è un vicentino che sfugge alle regole e agli spazi. Nella sua personale - Cambio di Stagione, le superfici informali di Maurizio Mascarin - in mostra al Caffè Lioy, c'è il linguaggio del viandante: ciò che appare margine si pone come centralità, come punto di partenza verso altro.
I segni graffiati danno profondità alle tinte delicate, quasi pastello, come in un viaggio alla ricerca di quell' essenzialità che si trasforma in meta e relazione con se stessi.
"Mi piace credere - afferma l'autore - che ad ogni fine corrisponde un inizio. Così margine e centralità si espandono nella medesima narrazione".
"Galeotta fu la matita colorata Giotto. Poi fu tutto un gioco: disegno, pittura, scrittura. Scrittura con l'Olivetti prima e il computer poi, pittura con l'acquerello prima, gli acrilici e le terre poi. Sì, si può pur cambiare il mezzo di locomozione, ma penna e pennello ti conciliano con il "viaggio" della narrazione". 
Parte subito così Mascarin: da un lato, sulla scrivania, una pila di libri, quelli di Magris e quelli di Sebaste, in bella vista; nell'altro angolo della stanza il cavalletto da pittore circondato da tubetti di colore, mastici, gesso, vernici. "Non c'è storia senza narrazione - dice - scrittura e pittura mi permettono di narrare le emozioni. Magari attraverso metafora, che è un declinare la storia, il quotidiano, le persone e le cose, per come noi le percepiamo. Attraverso la metafora si aprono molteplici finestre: dallo stesso punto si osserva sempre più lontano e in maniera sempre più nitida".
In questa personale denominata non a caso "Cambio di stagione" l'artista si è così avvicinato ad una pittura più pulita, sobria, lineare rispetto al passato; lo si nota soprattutto nei colori al naturale, a tratti sbiaditi, che hanno preso il sopravvento sugli eccessi cromatici apparsi nel suo percorso pittorico precedente. "In fondo - afferma Mascarin - tutto ha un inizio e tutto ha una fine".
Maurizio Mascarin
Maurizio Mascarin (alias "L'officina di MauMasc") espone dal 18 al 30 settembre nello spazio- galleria del Caffè Lioy 10 di contrà Paolo Lioy a Vicenza. Si tratta, come spiega l'autore, di una "small" di 6 opere - 5 materiche su pannelli in legno e una tela monocromatica, dal titolo "Cambio di stagione" - che all'inizio del 2016 verranno esposte in una più ampia personale a Palermo.
Al centro di questa sua narrazione, che si esprime in tracce, segni, sagome, tessere dal contenuto simbolico, letterario, metaforico, c'è il dipingere la memoria senza nostalgia e rimpianto. "Moduli costruttivi del transito da un tempo all'altro, da uno spazio all'altro, che si trasformano nel recupero lirico di un moto lontano - afferma la pittrice Michela Santoro - Da qui il passaggio ad una scala di colori sempre più tenui, quasi accennati, che si abbandonano nel margine più remoto dell'artista".

lunedì 16 giugno 2014

io

Mi ricordo le matite colorate Giotto, un regalo sempre ben gradito da me. Quelli della mia generazione, a scuola o sul tavolo da cucina, hanno conosciuto il colore (su carta) così. Poi è venuta la stagione della Bic, della penna a sfera multicolor “Carioca” e, più tardi ancora, la stagione dei pennarelli ad alcol. Un lusso, quest’ultimi, che allora non tutti si potevano permettere. Nelle cartolibrerie mi soffermo ancora adesso all’angolo dei prodotti Giotto. Mi fa piacere che ci siano ancora, considerando che tante cose di quegli anni Cinquanta sono state cancellate, spazzate via dalla storia.
Le matite colorate Giotto, come del resto i quaderni Pigna, i fogli della Fabriano, la gomma da cancellare Pelican,il barattolo di colla Coccaina (da… sniffare) mi fanno ancora compagnia. Appartengono a quell’arcipelago di cose che stanno nel tempo della vita con il garbo di chi c’è senza invadenza.
Avrei voluto fare il liceo artistico a Venezia. Ma non c’è stato verso: sono stato spedito al liceo scientifico. Al massimo, due ore di disegno ( geometrico e prospettiva…) alla settimana e qualche dose spicciola di storia dell’arte. Detto tra noi, non ho il rimpianto di non aver frequentato scuole artistiche. Per trent’anni ho fatto altro. Ho scritto, non dipinto. E questo, ora, è un grande vantaggio, perché non mi sento contaminato dalla conoscenza di questa o quest’altra tecnica pittorica. Faccio quello che sento con ignoranza tecnica ma ampia libertà creativa. Oggi stendo il colore con la stessa curiosità di quel bambino che colorava i suoi disegni – di auto e moto bizzarre, non di farfalle - con le matite Giotto. Questo penso e faccio, tutto il resto, evidentemente, è opinione, è giudizio, è punto di vista...E’, in buona sostanza, deleteria complessità.
Io visto da me
Strati di colore che si accavallano, che si intersecano. Che si nascondono e si sciolgono, che riemergono “dal sotto” per condividere tratti di superficie. Nella forma espressiva di MauMasc c’è il clandestino, il colore che scappa e (forse) ritorna, c‘è fortemente l’ingenuità (quasi) incontaminata di una libertà (ri)unita per frammenti. Il gesto pittorico dà un risultato dislessico: a tratti manifesta un linguaggio scomposto; a tratti si rifugia in segni (graffiati), in macchie (colate), in insert (di carta, gesso e vinavivil) che riflettono intervalli lirici. Pezzi, frammenti, stracci di uno spazio che, nel loro modo di porsi – su tela, legno, cartoncino- fanno intendere le dissonanze dell’istante sotto forma di segnale.
Partire è dividere. E’staccarsi.
Parte da dove, MauMasc? Lasciamo aperto l’interrogativo. Tutto è un morso, anche in MauMasc.