Mano a mano
Pensieri sconnessi/ Conversazione tra l’uno e l’altro.
MauMasc, perché?
Semplicemente è il taglio di nome e cognome, l’abbreviato
che usavo al giornale. Suona bene, è sintetico.
Dagli articoli di giornale alle superfici dipinte. Dove sta
la continuità?
Scrivere e dipingere sono linguaggi. Nel colore esprimo il
mio informale, l’istintività, qualcosa di ancestrale e infantile. Serve a me,
ma c’è sempre l’auspicio che possa servire a qualcun altro in termini di
emozione, di dialogo. Nello scrivere c’è troppa testa, troppo pensiero. Almeno
per me. Il bianco di una pagina da riempire non è la stessa cosa di una
superficie di legno da riempire. Dalla tela, dal cartoncino, dallo spazio di
una tavola di compensato esce il corpo, la fisicità, esce la Mano.
La Mano è la finestra della mente, dice Kant
Il movimento della mano parte sempre da un movimento del
cuore. La mano va da sola, è un motore autonomo dal cervello. Come spiega in
maniera lucida Domenico De Rosa, la Mano è un organo irrequieto, nervoso.
Assecondarla è uno stato di grazia, di sapienza. Nella scrittura c’è il finito,
nella superficie dipinta il finito, la
versione definitiva, non sembra esserci mai. E’ intenzione spontanea, fresca.
E’ vita. Tengo gli schizzi di amici pittori e non, sono molto di più della loro
carta d’identità. C’è il gesto, la seduzione. Il segno è un assolo che carica
un’azione, un’emozione.
Sei un autodidatta, non hai fatto scuole o corsi di pittura.
Da bambino usavo,
come tutti a quei tempi, le matite Giotto; cinquant’anni dopo ho incontrato l’acrilico,
il vinavil, il gesso. E’ stato come ritornare a scrivere con l’Olivetti, di prima mano, di getto…E’ il bello della
diretta.
Tracciare segni, buttare colore: salta all’occhio il fatto
che i tuoi quadri non hanno una collocazione di stile ben precisa. Seguono,
piuttosto, il tuo umore, il tuo meteo
Dicevo che in un quadro ci metto la mia mano, non so se
arrivo a metterci anche la
partecipazione visiva. Vale il gesto, forte o delicato, di quell’istante. Concettualizzare
l’astratto, l’informale, il materico , concettualizzare un clichè, un genere di
pittura, serve a poco. La Mano va, spatola e pennella colore, l’occhio vede.
Usiamo due sguardi diversi, è vero: l’uno si focalizza sul colore, l’altro li
trasforma in una sorta di ascolto, di ascolto della memoria. Ma In tutto questo
c’è la Mano, l’inquietudine della Mano. Ho scoperto un’intensa relazione con la
mia Mano : sa essere incerta e decisa, sensibile e distratta, serena e nervosa,
buona e cattiva…E’ il mio pentagramma, credo. Lei pulsa, trasmette, esegue,
tocca. Non agisce per puro istinto, ma per l’istinto dislessico che c’è in
ognuno di noi. La nostra Mano gestualizza e trama i nostri sogni, le nostre
angosce. Dà forma, spessore, persino suono, alle superfici dipinte.
Che stai leggendo MauMasc?
I “Pensieri seduti “di Sebaste. Ha come protagonista la
panchina. Sebaste ne fa una raffinatissima declinazione sulla vita. Siamo
sempre lì, insomma: (ri)cerchiamo tutti
una sana gestione del caos, perché siamo tutti indistintamente fragili.
Che fare, allora?
Riprendiamoci per… Mano.
Donna Fuga(ta)
L’ho
lasciata senza un abbraccio. Come un fuggiasco. Come chi esce di scena senza
via di ritorno. Un volo Wind Catania -Venezia mi riportava in quel nord grigio
da cui ero scappato per vivere due emozioni: lei, la Giò, e il mare invernale
dell’Ortigia.
L’Airbus che
mi ributta dentro la routine di tutti i giorni, affianca l’Etna: è innevato a
nord, sbuffa polvere arroventata a sud. Come me è inquieto. Ma vivo, energetico,
muscolare. Come me è in subbuglio: la sua pancia si sfoga come la mia.
Mi lascio
dietro tutto, senza rimpianti: la solarità di Giò,i bordi in mare con Max e
Pucci sul “Mamma mia”, la cucina alle erbe di Santuccia, le serate di caraoki a
casa di Ernesto ed Emma.
Me ne andavo
dall’ accogliente casa di calle degli Orsi che, con caparbietà, visto la sua
iniziale diffidenza, ero riuscito a farmi affittare da donna Carmen, bella
signora bruna nota in Ortigia per i suoi salotti musicali a base di Rossini e Mascagni.
In quella casa che mi ha protetto e coccolato, sono scappato lasciando ogni
cosa. Anche il mio disordinato diario, anche i miei libri, anche i miei disegni. Anche i miei odori stanno lì. Mi consola
lasciar traccia di me, evidentemente.
Ancora
adesso, a 12 mila piedi d’altezza, non so perché ho perso la testa per Giò. So
solo che quando il mio sguardo ha incrociato il suo, in un sabato di movida
ferragostana nella piazzetta di Favignana, sono stato attraversato da una scossa. Inutile
ora capire di più, devo solo metabolizzare la mia fuga, dimenticare i nostri
risvegli pieni di passione e i suoi intriganti sms. Ne tengo in memoria ancora uno: “Voglio tornare a mettere il
mondo sotto le scarpe, con te che mi tieni per mano”, dice.
A me sembra
l’inizio di una storia, di un’altra storia sospesa.
E’ tutto accaduto, anzi no.
Stato di Grazia
Ho preso la
porta con passo breve, deciso e ho infilato l’ascensore. Nei 10 secondi che
trascorrono per giungere al piano terra, l’ho cancellata. Spazzata via dai miei
pensieri, allontanata dal mio corpo. Lei, al 5 piano di casa sua; io sotto,
all’ingresso del condominio. Un ingresso d’uscita, però. Nel gioco del tempo (i
10 secondi, appunto), ero di nuovo io. Mentre mi guardavo nello specchio dell’ascensore,
vedevo il mio volto distendersi,
abbandonare la ruga sopracigliare. Mi
passo la mano destra sui capelli (lunghi) e mormoro un nevrotico (o tribale) ola ola
ola.crash crash crash.
Sì, tra noi
due avevo messo la giusta distanza.
“Fammi
entrare nella tua vita, tu sei il mio rivoluzionario, il mio alien”, mi
chiedeva insistentemente da settimane. Ed io niente, rispondevo con i silenzi.
Quelli che parlano, quelli che spiegano un disagio, una voglia di scappare.
Sentivo in quella
sua ossessiva richiesta una forma di
violenza, di tracotanza. Sia chiaro, a lei volevo bene, mi piaceva anche. Ma
tra noi non c’era chimica. Dopo un’ora di attrazione, montava la noia, una reciproca
tensione. L’iniziale passione s’era bruciata. Volevo tornare alle mie
curiosità, alla mia vita inventata giorno per giorno.
Due ore dopo. Non sono andato dall’amica di turno
o al bar per uno spriz. Mi sono chiuso in casa e ho fatto un quadro alla
Kandinski, pieno di colore, di vivacità, di materia, di caos. Una volta
terminato, ho trattenuto il respiro. Mi sono emozionato. Ho pianto.
Ero di nuovo
io. Solo.
“La sola poesia è quella connaturata
alla realtà delle cose, alla luce di cui sono intrise, al loro colore”, Emilia Marasca
Movimenti Remoti
Ho inseguito
il suo colore, le sue superfici dipinte di smalti e incrostate di gesso, stucco
e vinavil. Quadrati grandi, aggressivi, violenti, scomposti. Emozionali. Ho
visto (sì, visto; non altro )la mia anima uscire per andare incontro a lei.
(Preferisco immaginare, non vedere le
cose)
Quei pannelli
li avevo incrociati per la prima volta da Igor, Il tagliabarbaecapelli - così si qualifica lui - che, ogni primo giovedì del mese, propone
nel suo retrobottega underground composizioni
materiche, video-installazioni, letture di poesia. Varie performance umane,
insomma.
Quella sera
di giovedì , dopo il jazz al bocciodromo, me ne vado con luca da igor. L’alcol già
vola alto, la musica rook anche. Passa un pezzo dei Rem ( Zephir zong..) La
gente è sdraiata, un tantino sconvolta da cannabis e dintorni.
Dei pannelli
esposti, una dozzina, nessuno se ne frega più. Io solo me li passo uno per uno.
Li tocco, li gratto con i polpastrelli. A mo’ di sopraluogo. Toccandoli
percepisco, annullo le tinte, i dettagli.
I miei
desideri / quella sera/ sono pochi: lei e i viaggi. Ma lei chi è. I suoi
pannelli non portano firma, nessuno sa chi sia quella donna.
Artista
anonima, sì. Ma è solo un dettaglio.
Quella sera,
tra me e lei, è stato un gran viaggio tra i movimenti remoti.
Cose
Ci sono
cose, oggetti, anche apparentemente senza valore, che ti stanno a fianco tutta
la vita. Non c’è un perché “profondo”, non c’è una ragione precisa, ma è così. Succede
a me come a tanti altri. Di queste cose che nella tua vita azzerano la loro
forma per diventare icona, metafora, amuleti e quant’altro, ne parlavo frugalmente alcune sere fa con
degli amici del BarBorsa.
“Ho cambiato due mogli, 6 auto, ho
fatto 5 traslochi, ma il mattarello con cui da bambino tiravo la pasta da mia
nonna Gena sta con me da oltre cinquant’anni. Ora sta in studio, vicino al
computer, ma nell’appartamento di via cavour lo tenevo in salotto. Sott’occhio,
insomma”, mi
confidava Ireneo.
Come Ireneo,
anche Gianni e Antonio hanno una loro Cosa fissa. Gianni si tiene in cucina il pluridecennale
tubo di latta rosso che in origine conteneva una buona bottiglia di Mumm; Antonio confida di aver sul portafogli l’angolo
strappato di una pagina di Siddharta.
Nella vita,
per ragioni diverse, ho buttato via tante cose. Non sempre per volontà. Con
dispiacere il Bacchiglione arrabbiato mi ha portato via – nel novembre 2010 –
la credenza della nonna, che ogni primavera, sotto Pasqua, curavo con antitarme
e ceralacca. Avrei voluto stesse con me, ma in questo caso il fiume l’ha vinta.
Amen.
Faccio due
conti. C’è una Cosa che sta con me da 42 anni. Me la guardo tutti i giorni al
mattino mentre preparo la moka del caffè. Quella Cosa è il poster del Gingerino
Recoaro, che recita: “ Stimola ma non stordisce”. Lo slogan è accompagnato da
un primo piano di due belle gambe di ragazza
in minigonna bianca. Lei è anonima, nel senso che non ha volto. Lei c’è,
ma chissà chi è. Ciò nonostante, la sento. Mi arriva il suo odore.
(Qualche giorno dopo)
Mi passa
casualmente tra le mani una pagina di Goffredo Parise. Ad un certo punto scrive: “
Non inseguo le immagini, preferisco immaginare”.
Di questo faticoso vivere
Ti prende
forte la paura, a volte. Ti si stringe la gola, ti si chiude lo stomaco. La
paura fa male, ti sconquassa dentro.
Il resto è
saggezza. E’ gioventù.
Passeggio
tra i libri, vi trovi il caos e il
tormento del mondo.
Mi metto
orizzontale, rincorro il silenzio. Trovo il conforto del pensiero trasparente.
Der Wanderer
Scappo.
Cerco altri luoghi. Mi separo dall’unità dei miei affetti.
Partenze a
cui si è costretti per indagare nuovi spazi fisici.
Partenze volute
per abbracciare altro.
Vado via da
qualcosa e da qualcuno cercando di rivolgermi all’anima remota.
In questo
continuo scappare, esisti tu.
Cercami più
in là, dove ancora non sono.
Arriverà il
momento.
Frequento la
memoria. Ed incontro volti, sagome, figure.
Frequento la
carne. Intercetto l’arco cromatico degli odori.
Graffio la
materia che si scompone. E urla.
di arte non capisco, solo che può accogliere tutto, che è una pausa, fuori tempo o a tempo, una volta che hai in mano la forma della tua vita.
RispondiEliminaPrima c'è il vuoto bello e puro.
Poi l'artista fa esistere qualcosa dove prima non c'era niente, fa vivere quel vuoto.
Anche il silenzio è un vuoto, inteso come vuoto positivo.
Concetto, secondo me, applicabile alla musica, alla pittura, anche alla scrittura , pure meno indipendente di una nota, un tratto di matita, colori graffiati portati alla luce.
Ad un livello profondo, tutto risuona con le stesse sonorità, sempre nel rifiuto di una metodologia.
Ti vedo dentro il dipinto
Monica